Ciggo o non ciggo, questo è il dilemma. Approfondimenti in merito alla natura giuridica dell’appalto pubblico

Approfondimenti

18 gennaio 2018|di Avv. Michele Leonardi

Il 7 settembre scorso sono trascorsi 7 anni dalla vigenza dell’istituto della tracciabilità dei flussi finanziari. Dal 7 settembre 2010, giorno della vigenza della L.136/2010, le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di chiedere un codice CIG per qualunque contratto di appalto e di concessione, indipendentemente dal valore del contratto.

La sanzione comminata dalla legge, se non si rispettano le regole disposte, è grave, ovvero la nullità del contratto di appalto, dalla quale discenderebbe inevitabilmente un danno erariale per l’amministrazione che avesse erogato denaro pubblico in esecuzione di un contratto nullo (e di conseguenza inesistente).

Da oltre 7 anni le amministrazioni si danno un gran daffare per “ciggare” qualunque cosa.

Il verbo “ciggare”, assente in ogni dizionario italiano che si rispetti, è entrato a far parte delle discussioni quotidiane di coloro che in qualche maniera si occupano di appalti. Ebbene sarebbe bello che, dopo tutto questo sforzo pubblico profuso, qualcuno rendesse il conto dei risultati ottenuti per tramite di questo istituto.

Si ricorda che la L 136.2010 fu un pilastro nella politica di interventi contro la criminalità organizzata ed è stata la Legge sulla base della quale è poi stato approvato il Codice Antimafia (D.Lgs 159/2011). Ma la tracciabilità dei flussi finanziari che risultati ha dato?

Secondo una FAQ ancora pubblicata sul sito di ANAC, la ratio della normativa in tema di tracciabilità dei flussi finanziari sarebbe stata: “contrastare la criminalità organizzata e le infiltrazioni nelle commesse pubbliche, mediante le seguenti azioni:

  • anticipare, il più a monte possibile, la soglia di prevenzione, creando meccanismi che consentano di intercettare i fenomeni di intrusione criminale nella contrattualistica pubblica;
  • rendere trasparenti le operazioni finanziarie relative all’utilizzo del corrispettivo dei contratti pubblici, in modo da consentire un controllo a posteriori sui flussi finanziari provenienti dalle amministrazioni pubbliche.

La tracciabilità non è dunque uno strumento di monitoraggio dei flussi finanziari, bensì un mezzo a disposizione degli inquirenti nelle indagini per il contrasto delle infiltrazioni delle mafie nell’economia legale”.

Quindi la tracciabilità è nata quale strumento a disposizione degli inquirenti nelle indagini per contrastare le infiltrazioni delle mafie. Ad oggi quali risultati ha dato? La conoscenza di un minimo di ritorno positivo giustificherebbe l’enorme sforzo compiuto dal settore pubblico in questi anni.

La sensazione amara, però, è purtroppo un’altra.

La mia sensazione è che in questi 7 anni l’istituto della tracciabilità non sia stato tanto utilizzato per combattere la mafia, quanto piuttosto sia diventato uno strumento indispensabile per controllare la spesa pubblica ed in particolare i pubblici funzionari. Per carità, non c’è nulla di male nel desiderio dello Stato di controllare la spesa pubblica, ma gradirei che questo Stato decidesse una volta per tutte chi è il vero nemico: le organizzazioni criminali o i dipendenti pubblici?

Tralasciando queste inutili polemiche tipiche di coloro che per troppo tempo approfondiscono solo una materia, cerchiamo di vedere la parte mezza piena del bicchiere.

Già perché ritengo rilevabile una nota positiva anche nell’applicazione dell’istituto tracciabilità dei flussi finanziari. Infatti l’obbligo istituito di “ciggare” ogni appalto e ogni concessione, a pena di nullità del contratto, ha costretto le amministrazioni pubbliche a porsi una domanda che si ritiene molto importante: ma esattamente cosa è un appalto?

Può apparire incredibile, ma gli stessi manuali che insegnano la materia appalti pubblici tralasciano la questione come se fosse scontata. Si legge spesso della differenza tra appalto di lavori, di servizi e di forniture, ma non si legge mai cosa sia esattamente un appalto.

Invero nel nostro ordinamento non esiste una definizione di appalto. Il D.Lgs. 50/2016, riprendendo quanto disposto dalla Direttiva Comunitaria, si limita a dire all’art.3, comma 1, lett.dd) che “contratti» o «contratti pubblici” sono “i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti”.

Una tale generica definizione non aiuta, tuttavia, a riconoscere il contratto di appalto (da ciggare) con la natura giuridica di contratti differenti (da non ciggare), quali le convenzioni, i contratti di lavoro, le consulenze.

Dal 7 settembre 2010 le amministrazioni si stanno, dunque, scontrando con una questione che per anni era stata tralasciata e che oggi impegna molta parte del tempo dei nostri funzionari pubblici quando si trovano di fronte alla stipula di un contratto volto a soddisfare bisogni pubblici: ciggo o non ciggo? Ed ancora oggi, a ben 7 anni di distanza, non si può ritenere che tutte le questioni siano del tutto dipanate.

E’ indubbio che le amministrazioni possano acquistare prestazioni a titolo oneroso anche con contratti differenti dall’appalto. E’ importante, pertanto, che i dipendenti pubblici acquisiscano la competenza nel saper riconoscere le differenze tra il contenuto del contratto di appalto, rispetto al contenuto di differenti tipologie contrattuali.

A mio parere, non esistendo una definizione in grado di dare piena soddisfazione, occorre farsi aiutare dalla rilevazione di alcuni elementi sintomatici, presenti i quali si è in presenza di un contratto di appalto. L’assenza anche di uno solo di questi elementi sintomatici fa venire meno la natura giuridica di appalto.

Gli elementi sintomatici dell’appalto sono:

  • è un contratto bilaterale sinallagmatico nel quale l’amministrazione paga una prestazione che l’operatore economico realizza;
  • deve essere specificato e determinato l’oggetto della prestazione che l’appaltatore deve realizzare;
  • deve essere lasciata autonomia organizzativa ed imprenditoriale all’appaltatore;
  • deve esistere un rischio di impresa dell’appaltatore nella realizzazione della prestazione;
  • deve essere un contratto di risultato.

Ad altre differenti tipologie contrattuali manca almeno uno degli elementi sintomatici sopra descritti.

La capacità di saper riconoscere un appalto da altre tipologie contrattuali ben differenti è, dunque, cresciuta enormemente negli ultimi anni e, a mio parere, molta parte del merito di questa crescita è dovuta proprio all’istituto della tracciabilità dei flussi finanziari.

Nessuno potrà però mai quantificare davvero quanto sia costata allo Stato questa competenza e quanto sia costato il tempo trascorso dai dipendenti pubblici ad occuparsi di tracciabilità e, conseguentemente, fornire dati a soggetti terzi (Anac e Regione in primis) al fine di poter essere controllati.

Il 7 settembre 2010 è stata la data di avvio di una sorta di frana burocratica che si è abbattuta sul nostro paese e dalla quale dobbiamo ancora uscire. I nostri dipendenti pubblici dedicano intere giornate a fornire dati (spesso gli stessi dati in formati differenti) a soggetti controllori.

Le forze uomo del settore pubblico, già risicate a causa del blocco delle assunzioni, si devono dedicare spesso a fornire dati relativi a cose costruite in passato, piuttosto che a costruire nuovi progetti. E questo crea un inevitabile rallentamento nella crescita che, se si riuscisse ad alleggerire, costituirebbe un valore enorme per il nostro paese.

Avv. Vittorio Miniero